Un motore che sfrutta un buco nero può realmente funzionare?
Un processo teorico, vecchio di 50 anni, che vorrebbe sfruttare l’energia di rotazione di un buco nero, è stato confermato sperimentalmente. Utilizzando dei componenti simili a quelli necessari, i fisici hanno dimostrato la ragionevolezza del meccanismo di Penrose.
Non è sempre così, spesso tanti lavori teorici rimangono in un cassetto o su un vecchio numero di una rivista scientifica. A volte però possono essere utilizzati per creare nuove tecnologie, o come in questo caso, a sfruttare le proprietà degli oggetti più estremi dell’Universo.
I buchi neri sono il risultato della morte di stelle gigantesche; dopo la fase di supernova, il nucleo non è più in grado di sostenere l’attrazione gravitazionale e collassa in una singolarità, un punto di densità infinita.
La singolarità si trova all’interno di un “orizzonte degli eventi”, una zona in cui la velocità di fuga è superiore alla velocità della luce. Appena fuori dall’orizzonte degli eventi, lo spazio-tempo viene trascinato insieme alla rotazione del buco nero, la cui velocità è stata misurata per la prima volta poco tempo fa. È qui che entra in gioco il processo di Penrose. Nel 1969, il matematico Roger Penrose ha proposto di estrarre energia dall’ergosfera, la zona in cui il trascinamento dello spazio tempo è più forte.
Se un oggetto, divisibile in due, venisse lasciato nell’ergosfera, una parte volerebbe verso l’orizzonte degli eventi e l’altra verrebbe lanciata fuori dall’ergosfera. Secondo i calcoli di Penrose, la seconda parte uscirebbe con il 21% di energia in più rispetto a quella iniziale.
Ora, non possiamo andare vicino a un buco nero e testare questa ipotesi. Nel 1971 il fisico Yakov Zel’dovich ha proposto un esperimento più pratico: il buco nero viene sostituito da un cilindro metallico rotante su cui vengono inviati raggi di luce. Se la velocità di rotazione è abbastanza alta, la luce viene riflessa con dell’energia in più, assorbita dalla rotazione del cilindro tramite effetto Doppler.
C’è un piccolo problema con la proposta di Zel’dovich: la “giusta velocità di rotazione” è di un miliardo di rotazioni al secondo, rendendola non molto più pratica di un buco nero. Un team di Glasgow ha pensato di risolvere il problema sostituendo la luce con le onde sonore. L’apparato consiste in un anello di speaker mentre il “buco nero virtuale” è un materiale assorbente che ruota, la cui velocità aumenta quando viene colpito dalle onde sonore. Dei microfoni sono posti oltre il disco assorbente, per rilevare il passaggio del suono.
La prova del funzionamento del processo di Penrose è un aumento dell’ampiezza dell’onda sonora e un cambio della sua frequenza. “Se la superficie ruota abbastanza velocemente, accade una cosa strana alla frequenza dell’onda: può passare da un valore positivo a uno negativo e nel fare questo ruba energia al disco,” spiega Marion Cromb dell’Università di Glasgow.
I risultati sono stati eccellenti, l’esperimento è riuscito ad aumentare la frequenza di un onda facendola passare da udibile a non udibile, confermando la proposta di Zel’dovich e indirettamente il processo di Penrose.
I ricercatori pianificano di estendere la loro tecnica ai raggi luminosi, sarebbe un gigantesco passo in avanti nella prospettiva di sviluppare un motore che sfrutti l’energia di un buco nero.
FONTE: sciencealert.com
di: Andrea Costantini
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