Esistono forme di vita extraterrestri che abitano i substrati dei ghiacciai lunari?
Le forme di vita terrestre usano tutte lo stesso codice genetico. E se fossero possibili altre forme di vita con altri codici?
I terrestri sono tutti uguali: che si tratti di umani, tartarughe, vespe, alberi, funghi, tardigradi o batteri, tutti utilizzano lo stesso sistema operativo biochimico: DNA, RNA, ATP. Si possono rilevare alcune diversità interessanti ma è possibile che le forma di vita appena elencate siano tutto ciò che è presente nella Vita?
Kevin Peter Hand, uno scienziato del Jet Propulsion Lab, ha provato a dare una risposta questa domanda. Nel suo nuovo libro, Alien Oceans: The Search for Life in the Depths of Space , spiega in che modo, dove e come è possibile farlo.
Inglesi, francesi, spagnoli, tedeschi e polacchi usano tutti lo stesso sistema per codificare le informazioni: l’alfabeto latino. Greci e russi utilizzano alfabeti che differiscono in modo significativo ma funzionano ancora secondo gli stessi principi di base. Questo perché tutti questi script hanno un’origine comune. Il cinese utilizza una tecnologia informatica senza somiglianze con nessun alfabeto fonetico occidentale. Svolge la stessa funzione ma lo fa in un modo sostanzialmente diverso.
Ci sono, come spiega Hand, ragioni fondamentali per cui potremmo aspettarci che la vita ovunque usi la stessa chimica a base di carbonio e acqua che vediamo qui. Ma la vita sulla Terra è molto più limitata nel suo formato di quanto non richiedano tali considerazioni.
Nello specifico, tutte le forme viventi usano lo stesso alfabeto DNA-RNA per codificare le informazioni genetiche da una generazione all’altra e grn parte degli esseri umani usano l’alfabeto latino per comunincare. Ma altre forme di vita non terrestri potrebbero usare il cinese? E cosa potrebbe significare se lo facessero?
Per scoprirlo, dice Hand, dobbiamo trovare la vita aliena, e il posto dove trovarla è il sistema solare esterno.
L’acqua è l’ambiente essenziale per la vita. Ciò detto, gli scienziati in passato hanno definito la “zona abitabile” tutte quelle realtà dell’universo che si trovano in quella zona “temperata” dove è possibile avere acqua liquida. Nel nostro sistema solare ciò significa non più vicino al sole di Venere e non più lontano da esso di Marte.
Questa teoria, tuttavia, è stata messa in discussione nel 1979 dalle sonde Voyager della NASA, che scoprirono vasti oceani sulle grandi lune di Giove Europa, Ganimede e Callisto. Coperte da una crosta ghiacciata ma riscaldate dal basso dalle forze di marea provocate dalla loro vicinanza ai pianeti giganti, il volume dei loro mari è nettamente superiore a quello degli oceani terrestri. Nel 2005, alla sonda Cassini un altro oceano, sulla piccola luna di Saturno Encelado, si presentò in forma spettacolare sparando una fontana di acqua a centinaia di chilometri nello spazio.
L’acqua fuoriusciva da una crepa nella copertura del ghiaccio polare meridionale di Encelado, il geyser si trasformò in neve: partendo da queste osservazioni, si ritiene ora che la gigantesca luna di Saturno, Titano, abbia quasi certamente un oceano coperto di ghiaccio nascosto sotto i suoi mari di metano-etano superficiali e che probabilmente ci sono molti altre lune glaciali oceanici in attesa di essere trovati intorno a Giove, Saturno, Urano, Nettuno, e Plutone. Inoltre, il telescopio spaziale Kepler ha scoperto miriadi di mondi di ghiaccio in orbita attorno ad altre stelle, alcuni dei quali sono stati senza dubbio espulsi dalle interazioni planetarie per navigare nello spazio interstellare.
Potrebbero questi mondi ospitare la vita?
Cinquant’anni fa la scienza avrebbe risposto di no, perché la crosta di ghiaccio che li ricopre potrebbe avere anche dieci chilometri di spessore che impedirebbe alla luce di penetrare in profondità, rendendo impossibile la fotosintesi. Ma nel 1977, gli oceanografi che utilizzavano il sottomarino Alvin scoprirono un nuovo tipo di ecosistema sulla Terra, uno che attinge la sua energia non dalla luce solare ma dall’energia termica e chimica rilasciata dalle aperture vulcaniche degli oceani profondi.
Nel corso della sua ricerca, Hand ha visitato lui stesso questi luoghi, tra cui la fantastica “città perduta” idrotermale, un chilometro sotto l’Oceano Atlantico, in cui le forme di vita sono abbondanti e varie.
Quindi, in una parola, la risposta di Hand è sì, e continua a speculare su ogni sorta di possibilità interessante, che varia dai microbi sino ad arrivare ai polpi intelligenti.
La NASA ha una missione al riguardo: Europa Clipper, prevista per il lancio intorno al 2023. Andrà in orbita attorno a Giove verso la fine del decennio. Effettuando numerosi passaggi ravvicinati di Europa, questa sonda restituirà molti dati utili tramite telerilevamento, presumibilmente anche rilevando sostanze organiche all’interno delle strisce di materiali che sembrano essere emerse dai sottostrati, attraverso le crepe nel ghiaccio, sino a raggiungere la superficie della luna.
La NASA sta inoltre finanziando un team che include Hand per realizzare un progetto preliminare per la missione Dragonfly, una missione che dovrebbe portare un elicottero a radioisotopi a Titano.
Titano ha un settimo della gravità terrestre ma quattro volte la sua densità atmosferica -con condizioni di volo così favorevoli che se un terrestre si munisse di ali potrebbe volare come un uccello. Dragonfly sarà in grado di volare e atterrare ripetutamente su Titano, catturando fotografie dall’aria e campioni di superficie. Se materiale biologico emerso dalle crepe della crosta ghiacciata dei mari di idrocarburi di Titano è rintracciabile sulla sua superficie, Dragonfly potrebbe essere in grado di trovarlo.
Ma se vorremo davvero incontrare eventuali alieni degli abissi di qualche mondo oceanico, sarà necessario sciogliere gli strati di ghiaccio: usando le unità radioisotopiche da 300 watt del tipo che alimentava Voyager e Cassini e che alimenteranno Europa Clipper e Dragonfly, potrebbe volerci un decennio o più perché una sonda penetri attraverso una copertura di ghiaccio spessa dieci chilometri.
Sebbene Hand non ne faccia cenno, esiste una tecnologia che potrebbe fare questo lavoro: i reattori spaziali a fissione nucleare. Insieme al Los Alamos National Lab, la NASA ha finalmente iniziato a lavorare su uno di questi reattori, che chiamano kilopower. Attualmente valutato a dieci kilowatt, ma scalabile fino a 100, un orbiter alimentato con un reattore kilopower potrebbe sondare profondamente Europa o Encelado con un rilevamento attivo ad alta potenza, riferire la scienza con una velocità di dati che supera di gran lunga qualsiasi cosa attualmente possibile.
L’energia nucleare sarebbe inoltre di enorme utilità nel sostenere i piani della NASA per le basi umane sulla Luna e su Marte.
Per l’esplorazione umana e la ricerca nel sistema solare esterno è auspicabile che la NASA inizi a portare avanti questo programma con maggiore urgenza.
Di: Dénise Meloni
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